18.9.15

E tutto parla ancora di te,
come questa stupida cartelletta
con i vecchi "studi di settore".

Oggi mi sa che non ce la faccio
a farcela.

15.9.15

Rumori

Oggi ho per la testa solo rumori di cucina.
Il rumore del santoku sul tagliere di legno d’ulivo mentre taglio carote a dadini per il soffritto, netto, preciso e secco.
L’acqua che borbotta mentre bolle in attesa della pasta e il vapore che sale in movimento continuo, come un coro gospel.
I miei denti che mordono un pezzo di sedano croccante rubato alle preparazioni.
Le mezze maniche che scivolano dal contenitore al piatto della bilancia.
Poi le penne.
Poi i risoni.
Poi il riso.
Suoni ogni volta differenti, dal più grave al più acuto. L’avete mai notato? Che ogni pasta ha il suo rumore: perfino gli gnocchi fanno un piccolo *puf* nel piatto.
Il rumore della mannaia tenuta a due mani, che fende l'aria per tagliare il collo del fagiano selvatico, che si mischia al mio respiro trattenuto.
Quello del guanciale rigorosamente assisano che sfrigola lento nel suo stesso grasso.
Quello della mezzaluna che va e torna rapida sminuzzando prezzemolo.
Quello del coltello, più preciso, sminuzzando rosmarino ed erbe aromatiche.
Quello lieve lieve, mentre eviscero pesce fresco.
Quello sussurrato, della pasta che lievita nella ciotola in vetro, al caldo.
Mi manca la cucina. Mi manca cucinare, per piacere. Mi manca cucinare quello che mi gira.

Mi manca soprattutto, il poterlo mangiare.
E questo pensiero ha il rumore di una tazza che cade e va in frantumi, spargendo per gli angoli della casa la sua essenza che era e non sarà più.

Tornerò a godere dei rumori.
E dei profumi, almeno.

11.9.15

Orsina

Dialogo tra l'Orsina e i nonni.

O: Nonni, voi siete vecchi?
N: eh sì Orsina, siamo vecchi.
O: E quindi prima o poi morirete e andrete in Paradiso
N: err... S-sì Orsina, prima o poi.
O: E, nonno, se muore prima la nonna e tu resti da solo, come fai? Trovi un'altra moglie?
N: Nono!!! Mi è già bastata la nonna!!!
O: E, ma non puoi restare da solo! Facciamo così: nonna, aspetti a morire che divento grande così poi faccio io la moglie del nonno e gli tengo compagnia e così lui non è solo?

Orsina, quattro anni.
Ecco come sta metabolizzando lei il lutto.

Quella che stamattina mi ha chiesto "Mamma, che cos'è il destino?"

Chi crede nel destino, figlia mia, crede che le cose che accadano siano già scritte, come in un libro. Per esempio, anche il fatto che noi abbiamo fatto tardi oggi e che tu stai facendo colazione in macchina, anche quello era già scritto sul libro delle nostre vite e non si può modificare.
Alcuni lo chiamano Destino, altri Fato, altri ancora Disegno di Dio.
Lo so che Elsa in Frozen dice "da oggi il destino appartiene a me". E sai perché lo dice? Perché è come se dicesse "da oggi non lascio più che qualcun altro scriva la mia vita. Da oggi le mie scelte, le mie decisioni, il mio ... Destino, lo scelgo da sola". Ecco, la mamma la pensa come Elsa.

9.9.15

Onda lunga

E poi l'onda lunga arriva, dopo quattro ore di sonno, alle 2.26 di notte, complice la sveglia per richiesta d'acqua dell'Orsina.

E la accolgo, e ci finisco in mezzo e mi abbandono a un pianto liberatorio: il sigarillo ha sciolto gli argini della diga e i sentimenti hanno potuto fluire liberi.

Non ho paura della morte.
Ho paura di tutto il dolore che porta insieme a tutti i "mai più" moltiplicati per il numero di zii e zie. E sono davvero tanti.

8.9.15

Attimi

Entra il fumo acre, aspirato con voglia,
esce tutto il nero stipato nei polmoni.

Respiri profondi per espirare meglio.

Fumo avidamente il mio sigarillo alla vaniglia.
Avidamente elimino ogni dolore, nero, paura.

Resta circoscritto all'attimo,
resta il vizio del momento limitato nel tempo.

Non ci sarà più tardi,
non ci sarà domani.

Per pulirmi l'anima e smuovere ciò che è senza senso,
devo sporcarmi i polmoni di caldo fumo denso.

7.9.15

Mai più e per sempre

Sabato è stata una bella giornata.
Un blog-versario felice, un matrimonio di amici a cui mi sono divertita molto.

E poi.

E poi la chiamata che sapevi prima o poi sarebbe arrivata: la zia terminale che se ne è andata a poco più di due mesi dalla diagnosi.

E allora ti togli l'abitino corto, i tacchi, le forcine, il trucco e infili i jeans, le scarpe da ginnastica, il felpone pesante e un mollettone nei capelli e vai. E niente trucco, che non servono più maschere ma solo facce vere, libere di piangere e mordersi le labbra se necessario, senza il pensiero di sporcarsi di nero e rosso vivo.

E la tua presenza richiesta tra le righe, timidamente, è accettata e diventa parte importante.
Perché ti trasformi nell'Orsa che sa che non può dare spazio ai sentimenti cupi, perché c'è bisogno di qualcuno di freddo e razionale e lo diventi, automaticamente: fredda e calda insieme, come i tuoi occhi. E agisci. Anche se sei la più "piccola", agisci.

E il Nero non ha spazio, e insieme alla razionalità compare anche la serenità di una malattia senza sofferenza se non nelle ultimissime ore sedate dalla morfina, di un riavvicinamento sincero di tutti i nipoti, senza secondi fini.

E poi la visita delle persone e i "non voglio vederla, dopo non dormo di notte. Voglio ricordarmela com'era" e i "non sono andato a trovarla perché pensavo solo di disturbare e che non avesse piacere" (mi chiedo su che basi) e la mia faccia stupita, e il loro imbarazzo.

E i ricordi, i tanti ricordi di quella casa, dalle piastrelle ai quadri appesi, allo zucchero macchiato di caffè e acqua frizzante di quando ero una nanina poco più grande dell'Orsetta.

E ora, un piccolo seme di dolore si apre.
Ora, oggi, pensando ad Anna, ad O. e a mia Zia, ultima di un elenco sempre più lungo.

Sento il bisogno di un sigarillo, per sputare fuori con il fumo questo male, o per anestetizzarlo, o per fare finta che non ci sia.

Ma resto qui, sconclusionata, ad attendere l'onda grossa che arriverà, ne sono certa e spero questa volta di riuscire a non affogare.

5.9.15

“Sorseggia la vita senza fretta,
con dolcezza.
Cerca di non sprecarne neanche una goccia
e di bere con un Amico al tuo fianco,
anche se orso
anche se oste.”
05 settembre 2005

Il primo post della Taverna.

Rileggendo i primi post, mi sembra di essere un’altra, di non saper scrivere più così profondamente. Recentemente l’ho pure detto a qualcuno: mi sembra di peggiorare negli anni con la scrittura, non di evolvere.

Ma la Taverna è qui, con 10 anni di storia alle spalle, ed oggi è il suo blog-compleanno!

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Con sommo dispiacere quest’anno non mi sono lasciata interrogare dalla voce della montagna: arrivavo da troppi mesi di tensione e il vento è riuscito solamente a levigarmi e a prepararmi per il mare.

Quest’anno è il mare ad avermi parlato e a lungo.

Un giorno, in particolare, senza sole, con le onde alte; era pomeriggio, ero sola (senza figlia ne marito) in spiaggia e mi sono tuffata lo stesso, nonostante i flutti, insieme a pochi pazzi, ricacciando indietro la domanda “e se ti succede qualcosa e non hai dietro neppure la carta di identità?” tipica da nonna apprensiva.

Sono rimasta lì un’ora buona a lasciarmi trasportare da quella massa potente. Venivo sollevata con i piedi almeno a un metro da terra e non riuscivo a fare altro che ridere come una matta!

All'improvviso mi sono resa conto che la mia vita dell’ultimo anno era stata come essere immersi in quelle onde, con la sostanziale differenza che ho cercato ogni volta di dare spallate invece che adeguarmi al flusso, con la sensazione di essere sola al mondo anche se non lo ero davvero e senza la carta di identità a ricordarmi chi ero in tutto quel trambusto.

Sono finita una volta sott'acqua e ho pensato a quante volte nei mesi ci sono finita, senza respiro.
Ho cercato di uscire dal mare, ma con la sua forza mi risucchiava dentro e per poco non ho rischiato di cadere: sembrava davvero impossibile uscirne sul serio.

E una volta fuori? Ho desiderato subito tornare dentro a quell’agglomerato di potenza e forza e movimento. E ci sono tornata. E in mezzo a quel non essere padrona di me stessa e di dove potevo andare, ridevo come una matta.

E’ inutile pensare di non essere più quella di un tempo: lo sono e non lo sono, come una bottiglia di Sagrantino che invecchia. Se penso a quanto poco posso bere vino ora! Se penso che non potrei proprio! Io, che ho aperto una “Taverna” virtuale dove versare bottiglie di vita! Che Crohn mi abbia influenzata anche in questo senso e il “non bere” fisico abbia influenzato il “non gustare appieno” le bottiglie che la vita mi ha proposto?

E’ inutile pensare di cambiare tipo di vita: posso smussarla e migliorarla in parte, ma è a questa vita che appartengo e che voglio appartenere e devo eliminare i paravento che si sono creati con gli anni per non mostrarmi più angoli bui e anche angoli assolati di questo luogo che è l’essere me.

Si abbandonano passioni, se ne aggiungono di nuove, si coccolano quelle vecchie: vorrei saper tornare a scrivere in versi semplicemente, ma mi riesce così difficile ora… questo sì lo rimpiango, perché vuol dire che non riesco più a sentire il mio cuore dialogare con l’anima, mentre prima mi uscivano versi tipo

“...Colorami di vita...
Che cosa useresti?”

Con la stessa facilità con cui dicevo:

“Chessimangia stassera…
Pizza?”

In realtà, pensandoci meglio non è che non sento più il cuore dialogare con l’anima: è che si è messo di mezzo il cervello!

Ci sono arrivata all'improvviso, ragionando su un discorso fatto con un Ghost Rider incontrato per caso: all'inizio della Taverna per scrivere versi mi bastava staccare il cervello e lasciare libero spazio a cuore e anima, ma ora non più… Il cervello non ne vuol sapere di scollegarsi, vuol dire la sua, vuol dare il suo punto di vista, la sua inquadratura. Ma non mi è impossibile scrivere versi, devo solo lasciare che questi tre amici si accordino sul soggetto, l’oggetto e il punto di vista da prendere, come per fare una bella foto, come per comporre una nuova canzone.

Taverna mia, non sei più il posto delle sole bevute spensierate e ridanciane! Stai diventando il circolo dove fumare un buon sigaro e bere bene, dove ridere ovvio, ma anche dove parlare di cose serie, serissime.

Ti voglio bene. E volendo bene a te scopro di volerne un po’ di più a me stessa e a tutti quelli che hanno lasciato un segno sui tuoi tavoli, sui tuoi bicchieri, e a quelli che incontrerò nuovi e di passaggio, anche se sono sempre meno dato che il web ha altri tempi ed altri spazi rispetto a dieci anni fa.

Che senso hai? Chiedevo qualche tempo fa, data la raccolta di nero che ti accompagnava.
Hai il senso di essere me, di raccogliere tutti i pezzi di me, o almeno di raccogliere quelli che non voglio si perdano nella memoria dei giorni. Hai il senso dell’incontro, della condivisione, del percorso di analisi privato e pubblico insieme. Hai, ancora dopo dieci anni, molto moltissimo senso.

E quindi Prosit! Taverna mia,  Za zdorovie!
E Spasiba, di vero cuore.

Buon viaggio, lacio drom.

Buon viaggio, share the love.