16.2.09

bacio del diavolo

Mentre vivevo il mio venerdì sera, mentre lo gustavo fino all’ultima goccia, mi sentivo piena di dejavù, quando, tutto d’un tratto non mi è più importato e ho vissuto al presente nel passato.

Locale nuovo, mai visto, ben fatto, ben studiato.
E poi la gente, gente e ancora più gente: facce note, facce già viste, facce vissute per anni in un altro locale ora defunto, in un’altra epoca, in un’altra vita.
Stessa birra, e li brillano gli occhi. Perché non è solo un nome, ne solo un aroma o un colore, ma tutta una serie di emozioni, racconti, vicende: ad ogni sorso spariva un colore e venivo catapultata anni indietro, sempre con la sessa gente, ma come se stessi vivendo un sogno, un ricordo.

L’unica certezza che mi trovavo nel 2009 era la fede che porto all’anulare.

Luci strobo, casse altissime da far ronzare le orecchie e system of a down nelle battute del batterista e negli arpeggi del chitarrista e voce del cantante coperta dal coro del pubblico: seduta, vedevo solo le braccia alzate e lo sguardo compiaciuto del bassista: “Now, what do you own the world? how do you own disorder, disorder” eravamo un urlo unico, carico della tensione della settimana, del risentimento per tutte le situazioni di disagio in cui ci si era trovati, pieni di rabbia inespressa, o anche solamente pieni di fiato per sputare fuori tutta la negatività, fino ad arrivare alla positività finale “When I became the sun I shone life into the man's hearts”.

In quel momento sono tornata al presente. E la Devil’s Kiss è stata apprezzata come condensato di emozioni vive in grado di essere sopportate.

Nessun rimpianto,
solo,
un sorriso agrodolce.

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